Intervista a Cinzia Pilo, consulente esperta in tematiche di diversity & inclusion, autrice di un libro sulla Personal Social Responsibility: «La vicenda della ragazza di cioccolato nel buffet di un hotel è un’occasione persa per trasformare un incidente di comunicazione in un’opportunità di crescita e miglioramento».
Quanto accaduto in un hotel sardo nel giorno di Ferragosto, con il dibattito sollevato dalle proteste di un ospite e l’indignazione della figlia 14enne di fronte al triste spettacolo di una ragazza – adagiata come fosse una statua di cioccolato, al centro di un buffet di dolci – è uno spunto di riflessione importante vista anche la eco mediatica che il fatto ha avuto. Si tratta di un’occasione sprecata perché, al di là della vicenda in sé, l’azienda ha perso l’occasione di trasformare l’incidente in un’opportunità di crescita e di miglioramento che avrebbe, forse, mitigato la polemica. La riflessione investe il tema del modo in cui le persone vengono trattate all’interno delle aziende, la formazione, la cultura d’impresa, la gestione delle risorse umane.
Della visione della donna come oggetto ne abbiamo parlato con Cinzia Pilo, consulente aziendale impegnata su tematiche ESG, sull’inclusione e la diversità, sulla responsabilità sociale d’impresa. Nel suo primo libro “Personal Social Responsibility” spiega come professionisti, manager, ceo possono mettersi a disposizione di progetti a impatto sociale. Da poco Pilo ha pubblicato il suo secondo libro, dal titolo “Mind the Gap”, dove il gap, la differenza di cui parla, è la discriminazione – o meglio, le tante forme di discriminazione che esistono, sia in ambito civile che aziendale – proponendo anche un metodo per uscire da determinate situazioni.
Che cosa pensa della vicenda successa a Ferragosto?
La radice da cui deriva quell’episodio è sempre la stessa: l’ideologia patriarcale che si traduce nella discriminazione verso presunte ‘minoranze’ considerate inferiori per svariati motivi. È l’ideologia che trovo alla base del libro di Roberto Vannacci, che ho letto. Se qualcuno, come lui, sostiene che esista una maggioranza – che sommate quelle da lui definite ‘minoranze’ (donne/femministe, mondo LGBT+, etnie diverse dalla bianca, ecc.), maggioranza non è – e che queste minoranze debbano sottostare alle regole del vivere civile stabilite solo da una parte della popolazione che stabilisce cos’è la ‘normalità’ – e per questo debbano dunque essere marginalizzate – ecco che abbiamo la discriminazione. In queste arcaiche visioni, la donna in quanto biologicamente diversa dall’uomo, è ‘naturalmente’ destinata solo a ruoli di accudimento della famiglia. Da qui il passo verso la donna asservita all’uomo, il suo corpo atto solo alla procreazione, la sua de-umanizzazione al punto da diventare un oggetto da mettere esposto su una tavola per allietare una serata, è breve. Nel mio libro analizzo questi meccanismi e parlo di diversità e addirittura di unicità della persona che, in quanto tale, va sempre rispettata.
In questa vicenda c’è stato un errore di gestione del personale? Cosa ci si aspetterebbe da un HR manager in questo caso?
Il primo errore nella gestione di questo caso è stato quello di limitarsi a cercare il responsabile, la ‘mela marcia’, dimostrando di non aver capito quale sia il problema reale dell’azienda. Ossia una mentalità più diffusa, palesata dal fatto che per organizzare questa messa in scena sono state coinvolte tante persone consenzienti… Il secondo sono le scuse. Si sono scusati in particolare con l’unica persona – delle tante che sicuramente hanno partecipato alla serata – che ha protestato e poi con (cito testualmente) «i clienti che si sono sentiti offesi» per lo spettacolo offerto. Se le scuse vanno fatte, non devono essere ‘mezze scuse’ verso chi si è sentito offeso, e pertanto andavano fatte per l’atto increscioso commesso in generale: perché è stata calpestata, oggettivandone il corpo, la dignità di una persona. E poi mi sarei aspettata le scuse nei confronti della ragazza che è al centro della vicenda, di cui per fortuna non si sa nulla: ma anche lei è una vittima. Il fatto che si sia prestata a questa ‘performance’ dimostra quanto sia diffusa, anche tra le donne, una mentalità per la quale è normale essere strumentalizzate per la propria bellezza fisica. L’aspetto più discutibile è che la ragazza venisse presentata al centro di un buffet, dove il cibo si ‘prende’: una rappresentazione pericolosamente vicina all’idea de-umanizzata della donna-preda e del suo corpo oggetto.
Capita che una giovane dipendente accetti una situazione solo per timore di opporsi a un superiore?
In alcune aziende esiste una mentalità tossica che induce a non rispettare la dignità di lavoratori e lavoratrici. Non so se sia questo il caso, ma è una possibilità. In questi casi, si dovrebbe rifiutare e denunciare. Quando non ci si oppone è per il bisogno di lavorare e per il timore delle conseguenze. Poi esiste anche il fenomeno dell’emulazione: quando una parte dell’azienda perpetua comportamenti discriminatori (pensiamo alle diverse mansioni o ruoli, ai carichi di lavoro, alle disparità di stipendi), alcuni in azienda si sentono autorizzati a imitarli, specie se sono legittimati da chi ricopre ruoli apicali. Così i comportamenti discriminatori – o a volte vessatori – si ripetono e si moltiplicano. La formazione sui temi di diversità e inclusione deve servire anche a evitare questi fenomeni.
Si è parlato di un disallineamento tra i valori aziendali e i comportamenti. Cosa genera questo tipo di fenomeno?
Il punto su cui ho riflettuto è proprio questo. Praticamente tutte le aziende oggi inseriscono nella propria policy il rispetto delle minoranze, delle diversità, l’inclusione, la sostenibilità. Lo scrivono sui propri siti web, ne fanno motivo di orgoglio. Ma una cosa è scrivere una policy, un’altra è fare in modo che questa venga compresa, interiorizzata e attuata da tutte le componenti dell’organizzazione, a partire dal management e fino alle ultime reclute. Alle aziende non giova fare social-washing dicendo di essere inclusive, per poi trovarsi in situazioni come quella di cui stiamo parlando, senza saperle nemmeno gestire. La nostra società è pregna di diversità. Il vero compito delle risorse umane è di far sì che i valori di inclusività vengano capiti e messi in pratica attraverso una strategia di formazione corretta. Purtroppo spesso si assumono comportamenti discriminatori anche inconsapevolmente. È su questo che si deve lavorare per correggerli…
A volte è il manager a venire demansionato: è giusto che sia un singolo a pagare?
La semplice ricerca del responsabile assomiglia a un capro espiatorio punitivo e le scuse, peraltro nella modalità esposta, dimostrano che l’azienda è impegnata unicamente ad allontanare ogni responsabilità. Purtroppo però non viene capito che sarebbe invece opportuno fare un’auto-analisi e prendere consapevolezza che esistono sacche di disvalore al proprio interno: e da qui intraprendere dei percorsi per migliorare la situazione. È fondamentale affidarsi a una consulenza veramente esperta di politiche di diversity and inclusion, intraprendere azioni efficaci per la reale diffusione di una cultura del rispetto dell’altro. Limitarsi ad azioni punitive e a mezze scuse può danneggiare la reputazione, rischiando che episodi simili si verifichino di nuovo.
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