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Enrico Spinelli: «L’azienda è lo specchio di chi la dirige, anche nella ristorazione»

di Elisa Marasca
Attraverso un approccio dinamico e un focus sulla crescita personale e professionale, il coach Enrico Spinelli ci offre uno spaccato sulle sfide HR nel mondo dell’ospitalità, a cominciare dal team building.

Gli Emmy Awards sono stati assegnati a inizio 2024 e The Bear, la serie che parla di cucina e vede protagonista un talentuoso chef che lascia l’alta ristorazione per andare a gestire il locale di famiglia di Chicago, ha conquistato numerosi premi dopo aver trionfato anche ai Golden Globe del 2024. Ma perché una serie ambientata prevalentemente in cucina ha avuto così tanto successo, anche di pubblico? «Il protagonista Carmy, chef di livello mondiale, ha l’obiettivo di rivoluzionare il locale del suo defunto fratello. Questo sogno alimenta il conflitto centrale della serie, toccando dinamiche lavorative disastrose a livello di cultura aziendale. La sua sfida principale consiste infatti nel rivoluzionare le pratiche a lungo stabilite del suo team, correggendole», ha spiegato il giornalista statunitense Arlo Tickner. Il parallelismo tra ciò che succede nella serie e quello che si vive tutti i giorni in azienda è quindi uno dei fattori della fama i questa serie.

Abbiamo quindi chiesto approfondimenti a un esperto di gestione dei team nella ristorazione, con una base in counseling, una specializzazione in PNL (programmazione neurolinguistica) e una passione per l’hospitality. Da queste fondamenta è infatti partita l’esperienza di Enrico Spinelli, oggi formatore e consulente. A HR Heroes sottolinea l’importanza di non trascurare il capitale umano nel contesto imprenditoriale, identificando chi fa impresa con l’immagine del brand. Inoltre affronta l’attuale contesto di shortage di talenti nella ristorazione (e non solo), con consigli mirati.

Qual è stato il suo percorso lavorativo e come è arrivato a fare formazione in ambito ristorazione?

Il mio percorso in questo mondo è partito dal master in Counseling e Coaching psicologico presso l’associazione FCP (Formazione Continua in Psicologia) a Roma. Successivamente, ho conseguito master e diploma di Coach in comunicazione presso la Coach Academy di Milano, per poi specializzarmi nella PNL, nel riconoscimento di tratti espressivi facciali principali in modo universale e nel sistema FACS (Facial Action Coding System). Dal 2017 ho iniziato la collaborazione con Open Source Management, azienda di formazione imprenditoriale, e dal 2019 sono founder e CEO di Oceania Group Italia, società di consulenza con sede a Firenze. Nel mondo dell’hospitality svolgo infatti consulenze e formazione: tra i nostri clienti ci sono hotel di lusso come il Four Seasons e il FH55 di Firenze. Sono inoltre partner della società Ristobusiness, dove mi occupo della selezione e della formazione manageriale in ambito ristorazione.

Per chi non è nel settore, quali sono le sfide nella costruzione di un team motivato in un ristorante, di qualsiasi dimensione?

Un errore da non commettere è trascurare le persone che abitano e fanno parte di un progetto imprenditoriale, perché molte volte capita di essere incentrati sul business, ma tralasciamo la fonte primaria con la quale svolgiamo ed evolviamo la nostra azienda: il capitale umano. Un punto imprescindibile dal quale non dobbiamo mai staccarci è selezionare la persona brand ambassador di ogni azienda, che identifica quel brand. Solo successivamente si passa al servizio o al prodotto offerto, perché l’azienda è lo specchio di chi la dirige.

La gerarchia è ancora importante in questo campo?

Nella ristorazione la gerarchia deve essere legata a una buona leadership e quindi allo strumento della delega, poiché sarebbe impensabile trasformare la visione in realtà facendo tutto da soli. Si delega a seconda della competenza che è modulata all’interno di un team. La delega serve per incentivare le condizioni di sviluppo del gruppo di lavoro: realizzare il compito, far crescere gli individui, rafforzare lo spirito di squadra, ottenere gli obiettivi. L’azienda è composta infatti da singole persone valide, che formano un team per la condivisione della mission attraverso un’univoca comunicazione, partendo da un punto fondamentale: chi fa cosa e chi fa chi. Emerge così la necessità di stabilire aree di competenza e modalità di rapportarsi in azienda attraverso briefing stabiliti, riunioni e confronti giornalieri. È necessario avere goal da raggiungere su progetti condivisi e prima visionati in ogni sfaccettatura, fissare verifiche mensili e trimestrali per monitorare l’andamento aziendale in modo costante. Spesso questo è inficiato da una notevole presenza di persone che fanno fatica a comunicare.

Come investire sul capitale umano in un periodo di shortage di talenti?

La fidelizzazione e l’inserimento delle persone (che secondo me sono clienti interni) in un percorso e progetto di crescita imprenditoriale oggi risultano fondamentali. Direi che possiamo partire dalla prospettiva che chi ha un’impresa fa la differenza nella vita delle persone e nella sua attività solo se riconosce il valore dei suoi clienti interni e del loro talento, dando loro gli strumenti per svilupparlo. D’altra parte, se hai un talento ne sei responsabile. Ognuno di noi ha un talento, tutti diversi nei modi, livelli e settori, ma sta a noi comprenderci, ascoltarci e allenare le nostre qualità. Il talento attira talenti, e fa sviluppare il livello di produttività del team, portando all’azienda le giuste competenze. Se chi guida l’azienda teme un talento, ha solo una motivazione, o meglio una giustificazione: lo teme perché fa affiorare le sue insicurezze. Ma secondo me trovare delle persone che “giocano a un livello superiore” al proprio è un’opportunità per aprire la mente.

Elisa Marasca

Photo cover: Pexels / Furkanfdemir

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