Fondazione Libellula propone da anni strategie concrete per contrastare il gender pay gap e promuovere un ambiente lavorativo equo e inclusivo. Ce lo spiega la sua fondatrice.
Ancora oggi, serve molto impegno nel prevenire e contrastare la discriminazione contro le donne sul posto di lavoro. Affrontare questa problematica richiede un’analisi approfondita delle sfide intrinseche per raggiungere una parità di genere che, sebbene sia spesso proclamata, rimane difficile da realizzare a pieno. Lo afferma Debora Moretti, fondatrice di Fondazione Libellula, il primo network italiano di aziende impegnate nel contrasto e nella prevenzione della violenza contro le donne. La fondazione si propone come catalizzatore di azioni coordinate, mirando a sensibilizzare, coinvolgere e unire le forze delle aziende per affrontare questa sfida sociale, sottolineando l’importanza di un impegno collettivo per creare un futuro in cui le donne siano libere da ogni forma di violenza e abbiano pari opportunità in ogni settore della vita.
L’esperienza della fondazione insegna infatti che le difficoltà possono variare da barriere culturali e stereotipi radicati a strutture organizzative che richiedono ancora adeguamenti significativi per accogliere e promuovere equità di genere. Le opportunità, d’altra parte, emergono dalla consapevolezza crescente e dalla volontà di molte aziende di contribuire attivamente a un cambiamento positivo, riconoscendo il valore della diversità e della parità di genere nei luoghi di lavoro.
Com’è nata Fondazione Libellula?
Fondazione Libellula nasce come Progetto Libellula nel 2017, dopo che ho avuto modo di parlare con un uomo del carcere di Opera condannato per femminicidio. Ero rimasta colpita dalla normalizzazione della violenza, da lui raccontata come un “raptus”, e mi sono chiesta come doveva essere la vita di quella donna, come passava le sue giornate, se chi lavorava con lei si era accorto della situazione che la aspettava a casa. Non riuscivo a rimanere indifferente, ad andare avanti come se nulla fosse, così ho pensato a come potevamo prevenire e contrastare la violenza di genere attraverso i posti di lavoro, perché le aziende possono diventare promotrici di una cultura del rispetto. È nato così il Network Libellula, il primo network italiano di aziende impegnate nel contrasto e nella prevenzione della violenza contro le donne. La partecipazione è stata così alta e le iniziative sono aumentate così tanto che nel 2020 il Progetto è diventato Fondazione Libellula, e oggi possiamo contare circa 90 aziende nel network. Non solo: abbiamo all’attivo diversi progetti di cura, come “Dai segni ai sogni”, per formare il personale socio-sanitario a riconoscere i segni, anche invisibili, della violenza; “Rinasheta”, per il reinserimento lavorativo delle donne in uscita dal ciclo della violenza e lo “Spazio Libellula”, la nostra prima antenna sul territorio per intercettare casi di vulnerabilità e creare una cultura del rispetto.
Organizzate eventi presso le aziende?
Certo, ma non solo: la soluzione ideale è studiare un progetto ad hoc in base alla realtà perché può capitare, per esempio, che il personale lavori in parte in smartworking e quindi bisogna pensare a una formazione in modalità ibrida. Oppure che non riesca a trovare un unico momento per radunarsi, e quindi si può pensare a delle pillole video. O ancora, può esserci l’esigenza specifica di uno sportello di ascolto e della Consigliera di fiducia, oppure di un programma di empowerment, o ancora un percorso per il recruiting inclusivo… Le possibilità sono tante e non esiste un’unica ricetta.
Stando all’ultimo Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum ancora oggi esiste un divario tra le opportunità lavorative e i salari (a parità di ruolo e di quantità di ore lavorate) di uomini e donne nel mondo e, in particolare, in Italia. Quali sono le cause di questa situazione e come potrebbero essere risolte?
Purtroppo il gender pay gap è una conseguenza della disuguaglianza e delle discriminazioni: sono le donne quelle che ancora si sentono chiedere in fase di colloquio se hanno figli (domanda illegale, peraltro) e una risposta affermativa implica spesso per loro uno svantaggio (e chi assume una donna incinta diventa un eroe per la stampa). Diamo per scontato che la maternità sia un problema per il lavoro, e dall’altro lato diamo per scontato che i padri metteranno sempre il lavoro sopra la famiglia. Una visione che danneggia tutte e tutti. Infatti nella nostra Survey L.E.I. (Lavoro, Equità, Inclusione), condotta nel 2022, emerge che il 41% delle donne si sente a disagio nel comunicare una gravidanza. Invece dalla Survey L.U.I. (Lavoro, Uomini, Inclusione) emerge che il 40% degli uomini ritiene di non poter parlare liberamente sul lavoro delle proprie responsabilità familiari e di cura. In generale, dunque, diamo meno credibilità e valore alle donne sul posto di lavoro, mentre diamo per scontato che sappiano (anzi, debbano) occuparsi da sole dell’intero carico dei lavori di cura, senza riconoscimento né sociale né economico.
La Survey L.E.I. ha rivelato anche che una donna su due si dichiara vittima di una o più forme di molestia e discriminazione sul lavoro. Quanto lavoro c’è da fare per garantire un reale ambiente di lavoro paritario?
Il lavoro è ancora molto, perché il cambiamento culturale è un processo lento e continuo: nessuna e nessuno di noi può davvero dirsi libera o libero dagli stereotipi, la nostra mente ne ha bisogno per poter semplificare la complessità della realtà e dover spesso prendere decisioni in poco tempo. Quello che possiamo fare però è allenarci per far sì che questi stereotipi non danneggino nessuna e nessuno, e che non ci imprigionino in gabbie. Quindi sì, siamo ancora distanti da una completa parità, ma non posso non notare quanto le aziende stiano comprendendo il loro ruolo cruciale in questo cambiamento e vedo l’impegno che ci stanno mettendo. Loro sono fondamentali per ispirare e rendere virtuose altre realtà, oltre che le loro persone.
Sempre dalla vostra Survey è emerso che la genitorialità e il caregiving vengono vissute spesso con difficoltà, imbarazzo se non addirittura viste come un ostacolo verso potenziali percorsi di carriera. Le aziende sono poco proattive nel facilitare le carriere femminili? Come si potrebbe migliorare?
Innanzitutto il primo switch da fare è pensare che questo problema non riguardi solo genitori e caregiver, o solo le donne: se la discriminazione è a livello sistemico, allora dobbiamo prenderci una responsabilità collettiva. E non dobbiamo dimenticarci che anche noi, come persone, abbiamo un potere: nel libro del 2016 “Bastava chiedere”, l’autrice fa l’esempio di una donna che torna al lavoro dopo una gravidanza e viene accolta con la battutina «Come sono andate le vacanze?». Quanto influisce questo sul benessere e la sicurezza di una persona? Se un padre chiede di uscire prima dal lavoro per andare a prendere il figlio a scuola, perché deve temere che gli venga risposto: «Non può andare la madre?». Io sogno – e progetto con le aziende del Network Libellula – corsi che prevedano anche il coinvolgimento di figli e figlie del personale, perché è anche ascoltando il loro punto di vista che possiamo trovare nuove soluzioni a problemi che ci trasciniamo da tempo.