Secondo uno studio pubblicato dalla Fondazione Gi Group, sostenere l’occupazione dei giovani è una questione prioritaria per il nostro Paese
Sfaticati, senza voglia di lavorare, choosy. Ai giovani sono ricondotti spesso diversi appellativi, rimproverati di mancare di spirito di sacrificio e di essere privi di motivazione. Nella narrazione comune, tuttavia, sono omessi diversi aspetti: i salari più bassi rispetto ad anni fa e le poche possibilità di carriera sono tra questi, uniti a un costo della vita che, in parallelo, è aumentato. Ma il quadro è ben più complesso, complici le crisi in atto, l’inflazione, il cambiamento climatico… In questo scenario, si è diffuso il fenomeno dei NEET (Not in Education, employment, training) – persone che non studiano, non lavorano e non sono inserite in percorsi di formazione. Occorre, pertanto, contrastare e prevenire la situazione, intervenendo in maniera positiva e incoraggiando i giovani a prendere parte a un mondo in cambiamento.
È ciò che si propone di fare lo studio internazionale comparato Insieme per un futuro sostenibile: giovani e lavoro, promosso e realizzato da Fondazione Gi Group, la quale supporta la diffusione culturale e l’attività concreta sul lavoro sostenibile. Attraverso l’analisi di 8 Paesi (Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia, Regno Unito), l’analisi mira a comprendere le strategie messe in atto e il loro impatto nel sostenere l’occupazione giovanile e la transizione scuola-lavoro.
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Sostenere l’occupazione dei giovani è una questione prioritaria per il nostro Paese e il suo sviluppo; le politiche pubbliche si stanno impegnando per migliorare la formazione e l’orientamento delle persone appartenenti alle nuove generazioni: tra le missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – il programma per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia da Covid-19 nel contesto della Next generation EU – è presente proprio questo aspetto, unito alla creazione di posti di lavoro e agli incentivi relativi allo sviluppo delle competenze necessarie per il presente e per il futuro (come quelle digitali).
È il modello di società che impatta sui giovani
I dati, tuttavia, non sono incoraggianti: secondo quanto emerso dalla ricerca, l’Italia si posiziona agli ultimi posti in Europa per popolazione giovane 15-34 anni, con un record di NEET che raggiunge quasi quota 3 milioni. Un fenomeno che vede più del 20% dei giovani perdersi, senza poter contribuire attivamente al futuro del Paese; ma non solo: come riportato nello studio, questo si traduce in una generazione di soggetti fragili, privi degli strumenti e della consapevolezza per porre le basi per realizzare i loro sogni e le loro ambizioni, con un domani incerto.
Il lavoro deve essere sostenibile e, proprio per questo, il report si propone di fare luce sulle principali caratteristiche demografiche ed economiche, sugli elementi che impattano maggiormente sull’occupazione delle nuove generazioni e sulla transizione scuola-lavoro. A questo proposito, ci sono differenze tra i vari Paesi: non in tutti i giovani sono considerati vittime di una società che li relega ai margini. Come spiega Marco Leonardi, Professore Ordinario di Economia presso l’Università degli Studi di Milano, è il modello di società a essere diverso, che blocca l’ascensore sociale e fa leva sul privilegio e sui rapporti di potere, spingendo così l’esclusione dei giovani: «Negli ultimi trent’anni il rapido declino demografico e l’accumulazione della ricchezza delle famiglie ha fatto sì che il modello prevalente in alcuni Paesi sia quello del giovane che sta nella famiglia di ordine fino a tarda età, studia poco, lavora poco e comunque dipende da genitori e nonni per quanto riguarda il pagamento dell’affitto o l’acquisto della prima casa o la gestione dei figli».
Proprio per questo nello studio si esplicitano le best practice esistenti nei Paesi più virtuosi, identificando modelli e iniziative che possono essere messe in atto in Italia per favorire una maggiore e migliore occupazione per i giovani. «In altri Paesi, i giovani vivono in condizioni migliori sia in termini di opportunità, di istruzione e di lavoro che di salari iniziali al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro», rivela Leonardi.
Alto tasso di NEET e disoccupazione: Italia e Spagna non reggono il confronto
Fra i Paesi analizzati, Italia e Spagna sono quelli in cui la situazione dei giovani appare più critica, con un alto tasso di abbandono scolastico e limitati programmi educativi collegati al mondo del lavoro: quelli tra i 15 e i 34 anni arrivano a rappresentare poco più del 20% della popolazione: «Si assiste così al cosiddetto “degiovanimento”, preoccupante per la sostenibilità socioeconomica futura del sistema Paese stesso», afferma Rossella Riccò, Responsabile Area Studi e Ricerche di ODM Consulting. Si riscontra una percentuale più alta di NEET in tutte le fasce d’età (18-24, 25-29, 30-34) con una forte differenza di genere nella partecipazione al mercato del lavoro, minori tassi di occupazione giovanile e alta disoccupazione. In questi Paesi c’è un alto tasso di lavoro nero, di part-time involontario, di contratti a termine con limitata tendenza alla stabilizzazione entro i tre anni, salari relativamente bassi e una percentuale più elevata di lavoratori dipendenti a rischio di povertà. I giovani risultano meno soddisfatti della situazione lavorativa ed economica e tendono a rimanere a lungo nella famiglia d’origine.
I Paesi in cui si riscontrano migliori condizioni di lavoro ed hanno alti livelli di soddisfazione lavorativa sono la Svezia, l’Olanda e la Germania. Oltre ad avere – a livello salariale – un’alta percentuale di trasformazioni di contratti a tempo indeterminato entro tre anni, questi Paesi hanno tassi di fertilità più elevati rispetto alla media europea, supportati da solide politiche familiari e una cultura che promuove l’indipendenza dei giovani dalla loro famiglia d’origine. Paesi Bassi e Germania risultano quelli con le migliori performance in termini di transizione scuola-lavoro e il minor numero di NEET nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni. I Paesi Bassi e la Svezia hanno i più alti livelli di occupazione e i più bassi livelli di inattività nella fascia di età 30-34 anni.
Formazione e sviluppo: coinvolgere una generazione esclusa
Si delinea un quadro in cui nei Paesi nei quali le persone sono più motivate, sono anche quelli in cui ci sono modelli e politiche incentivanti. Un ruolo centrale in questo lo svolgono le aziende e la Direzione HR, offrendo, per esempio, opportunità di lavoro che consentono ai giovani di entrare nel mondo professionale, acquisire esperienza e sviluppare competenze. Inoltre, le imprese possono favorire la motivazione fornendo un ambiente di lavoro che valorizzi l’innovazione, la creatività e l’apprendimento continuo.
Programmi di formazione, mentorship e sviluppo personale possono ispirare i giovani a dare il massimo e raggiungere il loro potenziale. Inoltre, le aziende che adottano una cultura aziendale rispettosa e sostenibile sono più attraenti, poiché questi desiderano lavorare per organizzazioni che condividono i loro valori e contribuiscono al benessere sociale e ambientale. Le aziende giocano un ruolo chiave nell’aprire porte, dare fiducia e spingere i giovani a crescere e contribuire in modo significativo alla società.
Secondo il Report FragilItalia I giovani Generazione Z e il lavoro, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos, a cui è stato chiesto a 800 giovani di esprimersi sui fattori repulsivi e su quelli attrattivi del lavoro, emerge che tra i primi, al numero uno c’è il timore di essere sfruttati (48%), seguito da quello di non avere tutele (34%) e di non essere apprezzato (29%). Tra quelli attrattivi, al primo posto per i giovani c’è l’adeguata remunerazione, anche se con un’intensità minore rispetto alla media complessiva (39% contro il 46%), seguita dall’opportunità di fare esperienza (31%) e dall’avere un capo che ascolta e riconosce i meriti delle persone (29%).
D’altronde, il ruolo delle nuove generazioni è centrale nei processi di sviluppo economico e sociale di un territorio. Come sottolinea Riccò: «La loro limitata partecipazione è un problema estremamente serio e complesso per il loro percorso personale e per la sostenibilità del Paese». Ecco perché bisogna cercare di sostenere in modo efficace il loro ingresso e la permanenza nel mondo del lavoro ed evitare che entrino nella condizione dei NEET, in quanto rappresentano la chiave per uno sviluppo sostenibile.
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