La più recente edizione del rapporto sul welfare aziendale elaborato da Censis-Eudaimon mostra che il welfare può restituire senso e attrattività al lavoro.
Nel contesto attuale, il panorama dell’occupazione in Italia è segnato dalla crescente “apatia” di lavoratori e lavoratrici. Il legame emotivo con il lavoro si sta allentando: la sua importanza è stata ridimensionata e una sorta di disaffezione aleggia tra le persone. La propria professione non è più vista come l’elemento centrale della vita, ma come una delle tante attività quotidiane. Eppure, continua a essere indispensabile per garantire un reddito. È in questo contesto che il welfare può essere una leva di motivazione e può restituire senso e attrattività al lavoro.
A confermare lo scenario sono i dati della settima edizione del rapporto sul welfare aziendale elaborato da Censis-Eudaimon, dal titolo “Il welfare aziendale e la sfida dei nuovi valori del lavoro” che include una ricerca su 62 aziende, oltre a una serie di attività complesse come l’indagine di popolazione su un campione nazionale rappresentativo di mille cittadini maggiorenni, analisi desk di dati di fonte varia, metanalisi di materiale documentario di vario tipo, e altro. Le persone desiderano in futuro ridurre il tempo dedicato al lavoro: più di due lavoratrici e lavoratori su tre (67,7%) vorrebbe lavorare di meno; in particolare, il 68,4% dei dirigenti, il 71,2% degli impiegati, il 68,4% degli operai si sentono in sintonia con questa prospettiva. Inoltre, il fenomeno è condiviso trasversalmente tra tutte le generazioni: meno ore di lavoro sono volute dal 65,5% dei giovani, dal 66,9% degli adulti e dal 69,6% degli over 50.
La minore presa del lavoro sulle persone ha radici profonde
A confermare il quadro è Sara Lena, Area Consumer Mercati privati Istituzioni del Censis, che ha lavorato allo studio: «Se in passato rappresentava il perno centrale della vita, il principale riferimento identitario, nell’attuale contesto è in atto una vera e propria de-prioritarizzazione del lavoro. Si tratta di un esito delle crisi che nell’ultimo quadriennio si sono susseguite e hanno costretto le persone a misurarsi con gli effetti minuti di grandi eventi globali e con la percezione di un contesto sempre più ostile in cui ha prevalso l’attitudine a vivere nel qui e ora su quella di investire nel momento presente per avere di più e meglio nel futuro prossimo», dichiara nel report.
Secondo il rapporto, infatti, circa il 30% degli occupati si limita a eseguire le attività lavorative necessarie, senza accettare di fare straordinari o di rispondere a email o telefonate al di fuori dell’orario lavorativo. È un fenomeno conosciuto come quiet quitting che evidenzia un cambiamento socio-culturale significativo, dove il concetto di lavoro non è più considerato come l’elemento centrale intorno al quale ruotano tutte le altre sfere della vita.
Del resto «la minore presa del lavoro sulle persone ha radici profonde, poiché per il 62% degli occupati la propria retribuzione non consente di realizzare le proprie ambizioni», si legge nel report. Inoltre, il 43,3% degli occupati in Italia ritiene di svolgere un lavoro inadeguato al proprio titolo di studio e/o alle competenze. Questa è definita dallo studio come “frustrazione latente trasversale”.
Inoltre, con lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (AI) e delle nuove tecnologie aumentano le preoccupazioni: il 29,7% dei lavoratori teme il licenziamento poiché il proprio lavoro in futuro potrà essere svolto dalle macchine. «Queste sono tutte ragioni, dinamiche di lungo periodo e processi congiunturali, che spiegano il fenomeno oramai in atto della disaffezione al lavoro», continua Lena.
Chi lavora richiede attenzione al benessere
In realtà, emerge un paradosso: l’occupazione è alta, c’è maggiore stabilità ed è più facile ricollocarsi in un altro luogo. Il 67% delle persone dimesse dal lavoro con massimo 60 anni si è ricollocato in altro impiego entro tre mesi. E in questo scenario, una nuova concezione del benessere intacca il rapporto degli italiani con il lavoro, cambiandone priorità e valori. Risulta buona l’attenzione delle aziende alle vulnerabilità delle persone, ma meno al loro benessere generale. Il 61,5% degli occupati reputano adeguata l’attenzione dell’azienda in relazione alle esigenze di persone con figli, il 71,0% alle donne che rientrano dalla maternità, il 62,9% alle esigenze delle persone con una salute fragile e il 52,3% alle condizioni basiche, come la sicurezza. Invece, per il 61,7% degli occupati l’azienda non è abbastanza attenta al benessere psicofisico delle persone. Commenta Lena: «Un’ulteriore grande esigenza espressa dai lavoratori, trasversalmente da dirigenti, impiegati e operai è quella di essere ascoltati e riconosciuti. Un tema cresciuto notevolmente dopo il Covid per cui la persona singola desidera essere riconosciuta nella sua soggettività, nella sua singolarità in quanto individuo e non solo come appartenente a una categoria».
Il welfare può aiutare nelle incombenze quotidiane
Un’altra questione è quella legata al costo professionale di figli e figlie per le madri. Il loro tasso di occupazione è pari al 58,6%, mentre quello dei padri all’89,3%. Il divario a scapito delle donne è di -30,7 punti percentuali (in Germania è pari a -17,4, in Francia a -14,4, in Spagna a -19 e in Grecia a -29,1). Persiste, dunque, un modello tradizionale di famiglia, con l’antica divisione per genere dei compiti.
Il welfare aziendale potrebbe rivelarsi uno strumento essenziale nel rapporto delle persone con il lavoro poiché, aiutandole ad affrontare le incombenze quotidiane, risponderebbe anche alla richiesta di maggior tempo per sé stessi. «Nell’attuale contesto di disaffezione al lavoro, il welfare ha tutte le potenzialità per migliorare la qualità della vita dei lavoratori, ma pure per rilanciare l’engagement e incrementare la motivazione, in una logica di attraction e retention, in particolare in un momento in cui il mercato del lavoro vive un eccesso di domanda rispetto all’offerta di lavoro», spiega Lena. E continua: «Non è un caso se l’89,2% dei lavoratori lo vorrebbe personalizzato, un modo di fare welfare aziendale che potenzierebbe l’engagement e potrebbe rispondere alla grande richiesta di ascolto e di essere riconosciuti come persone singole».
Come emerge dalla ricerca, il 59% delle aziende, oggi, ha maggiore difficoltà nel reclutare il personale e riscontra per il 50% un aumento delle dimissioni volontarie. Nel concreto, le aziende hanno già adottato strategie di retention specifiche per i dipendenti (82%), mentre il 66% ha lavorato per migliorare la talent attraction. Nello specifico, il 33% ha reso più incentivanti le retribuzioni, il 55% ha aumentato la flessibilità negli orari di lavoro, il 67% ha integrato strumenti di welfare aziendale. Inoltre, il 95% delle aziende ritiene che sarà indispensabile adattarsi al crescente valore che le persone attribuiscono al tempo libero; il 72,4% delle persone, d’altro canto, sostiene che apprezzerebbe in azienda la figura del consulente di welfare di supporto per affrontare le difficoltà quotidiane che spesso occupano tempo anche fuori dall’orario di lavoro.
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